
“Mattia ha ventisei anni. Ne aveva diciassette quando sua madre si è scoperta ammalata. Sono trascorsi nove anni – più di cento mesi – da quel giorno. Ora lei ha cinquantaquattro anni. E li avrà per sempre.”
L’invenzione della madre di Marco Peano è un libro tosto, tostissimo, principalmente per un motivo: maneggiare il dolore (il nostro ma anche quello altrui) fa male.
In questo libro, poi, il dolore del protagonista per la perdita della madre è descritto con così tanta precisione che sconvolge, crea un senso di disagio, di malessere, e l’unica cosa che desideri è che finisca. Per me almeno è stato così.
La madre di Mattia è malata terminale. Questo è il racconto dei suoi ultimi giorni a casa in attesa di morire raccontato con gli occhi, il cuore, la testa, le parole del figlio. La donna si spegne lentamente, giorno dopo giorno, e sebbene Mattia sappia bene che non ci sarà altra conclusione se non la morte, non riesce a vincere quella folle, insensata, immotivata speranza che puntualmente fa capolino tra i suoi pensieri: la speranza che ci sia un finale diverso ancora possibile.
“Il figlio si è dato un compito: correre più veloce del cancro. Correre, vivere con la madre tutte le esperienze che la morte arriverà a negare. Correre per non perdere neanche un minuto di vita della madre. Ma il cancro ha molto più fiato di lui.”
E questo rende l’agonia (per lui e per il lettore) se possibile ancora più dolorosa.
Leggere questo libro è stata una vera prova. Per quanto riconosca le doti narrative e descrittive dell’autore, e l’assoluta capacità di portare in scena il dolore sviscerandolo in tutte le sue forme, il fastidio che ho provato, pagina dopo pagina, devo ammettere che ha oscurato il resto.
Ho passato il tempo della lettura a desiderare che la madre morisse. Subito. Poi ho capito che la sua non-morte e, anzi, la sua non-vita era funzionale alla narrazione, che senza questa condizione sviscerare i sentimenti di Mattia non sarebbe stato possibile. Non posso dire di essermene fatta comunque una ragione, ma ho voluto comunque andare fino in fondo.
“Mattia inventa per sua madre nuove vite: lui che da lei è nato, lui che da lei è stato inventando , la fa costantemente rinascere perché possa continuare a esistere, almeno nell’invenzione. Perché sa bene che quando il padre non ci sarà più e quando Mattia stesso non ci sarà più, nessuno potrà ricordare ciò che lei è stata.”
Sebbene sia passato un po’ tempo dal termine della lettura non riesco ancora oggi a dire se, in definitiva, questo romanzo mi sia piaciuto o meno.
Un libro scritto bene che mi ha richiesto uno sforzo emotivo troppo grande, ecco forse direi piuttosto questo.
Prima si andare a leggere cosa ne pensa
Simona vi lascio il titolo del prossimo #leggiamolo:
We are family di Fabio Bartolomei.
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