Nei tuoi panni
La prima cosa che ti viene chiesta, il giorno che diventi mamma o papà, è metterti nei panni del tuo bimbo. Non è che qualcuno te lo chieda esplicitamente, ma in poco tempo impari che farlo è l’unica speranza che ti resta.
Lui piange, e la cosa più saggia da fare, l’unica valida per farlo smettere, è vestire all’istante i suoi panni o, ancor meglio, i suoi pannolini.
Me li ricordo ancora i primi tempi in giro con la Marmocchia. Quelli che si tuffavano in carpiato nella carrozzina urlandole in faccia “che bella bambiiiiina“. Lei si svegliava e si trovava due occhi enormi spalancati, una bocca grande che, il più delle volte, le parlava in deficentese e una carrellata di profumi forti e sconosciuti. Chiaro che in tempo zero attaccava a piangere. E tutti giù a fare gli espertoni: avrà fame, avrà caldo, avrà sonno, avrà il pannolino sporco.
E se invece avesse solo avuto la sfortuna di imbattersi in un passante particolarmente idiota? pensavo io.
Fare la prova era un attimo. Bastava che mi mettessi per un istante nei suoi panni e mi chiedessi cos’avrei fatto io al posto suo. Se la risposta era “avrei pianto disperatamente” (e lo era nel 99.9% dei casi) allora era tutto a posto. Neutralizzavo la fonte di disturbo e proseguivo serena.
L’esercizio, anche se spesso inconsapevolmente, si protraeva per l’intero arco della giornata: la pappa, il cambio, la nanna e tutte le situazioni dentro e fuori dalla nostra routine.
– Siamo passati dai -5 gradi esterni ai +25 interni e lei, ancora vestita da missione in Lapponia, piange?
– In casa abbiamo ospitato un’allegra combriccola di una trentina di amici che da oltre un’ora stanno a passarsela di braccio in braccio, manco fosse una partita di rugby, e lei piange?
– Abbiamo deciso democraticamente che il suo riposino pomeridiano dovrà tassativamente essere effettuato durante la puntata di Beautiful, ogni giorno, da lunedì a venerdì, no matter what (anche se la sua ultima pennichella risale all’ora prima ma noi non possiamo certo perderci il nuovo episodio, eh) e lei, stranamente, appena tocca la culletta piange?
Mettetevi nei suoi panni, solamente qualche secondo, e avrete la risposta al perché piange e la soluzione immediata per farla smettere.
Mettersi nei suoi panni, all’inizio, era semplicemente questione di sopravvivenza. La sua e la mia in egual misura. Ma, senza saperlo, è anche stato il modo in cui ho imparato a conoscerla, capirla e rispettarla.
Sembra poco e non lo è. Perché vi dico ciò?
Da qualche tempo la mia bacheca Facebook (e temo anche le vostre) è diventata il ricettacolo di sentenze e giudizi che talvolta mi sembrano piuttosto sparati a casaccio. Non solo la vita virtuale pullula di esperti sulla qualunque, ma anche quella reale.
Ho riflettuto a lungo sul perché sia per noi così facile giudicare anche situazioni che non abbiamo mai vissuto e che, con tutta probabilità, nemmeno mai vivremo.
Non entrerò nel dettaglio, ma i recenti fatti di cronaca vi daranno un’idea di cosa sto parlando.
Mi chiedevo da dove nascesse questa facilità al giudizio. Ancora di più mi chiedevo se dietro a questi toni decisi e inamovibili ci fosse una forte coerenza di base. Mi è bastato aspettare qualche giorno per capire che no, questa coerenza di base non c’è. Non sempre, almeno.
Parla la prima di tutti gli incoerenti del mondo, sia ben chiaro. Ma forse non è nemmeno questo il punto.
Allora ho pensato che forse l’esercizio di mettersi nei panni degli altri, quell’esercizio bellissimo che impariamo a forza nella nostra vita di genitori, potremmo magari estenderlo anche agli altri, a tutti gli altri. E magari prima di dire che “la gente è tutta uguale” (sottintendendo che noi siamo quelli diversi, quelli giusti, speciali), potremmo indossare per qualche istante i panni dell’altro.
Io non ci riesco sempre, ve lo dico. Per carattere quando vedo un’ingiustizia, che mi riguardi o meno, parto in quarta finché non mi sono sfogata per bene. Il ragionamento viene dopo e quasi sempre mi fa cambiare idea.
Così ho promesso a me stessa di mordermi la lingua, bacchettarmi le mani, nascondere la penna, prima di sparare a zero su un fatto che non ho vissuto in prima persona. E parlare solo a riflessione avvenuta e tassativamente solo dopo essermi messa nei panni dell’altro.
Mi ci sto applicando anche se per ora i tempi di riflessione sono piuttosto lunghi: da una parte… ma dall’altra parte… e da quell’altra parte ancora… L’effetto è il mutismo più assoluto, proprio perché se ti metti nei panni dell’altro la cosa più spontanea che ti viene da fare non è giudicare ma capire. E allora rimane poco da dire. Che spesso non vuole dire né approvare né sposare la causa, sia chiaro. Ma solo rispettare e comprendere. E non è poco, non è affatto poco.
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