Figliolo caro #storie
Figliolo caro, questa mattina sono stato risvegliato da un fruscio delicato, un battito d’ali leggero ma insistente, che si è placato solo quando ho deciso di alzarmi per vedere di cosa si trattasse. Lentamente, per non svegliare mamma, mi sono accostato alla finestra e ho dischiuso le imposte per sbirciare fuori. Non albeggiava ancora, ma nel buio mi è parso di distinguere qualcosa. Ho strizzato gli occhi per vedere meglio. Una rondine se ne stava impettita, appoggiata al comignolo della casa di fronte. Sembrava mi fissasse, anche se non sono certo potesse vedermi davvero. Eppure non accennava a staccare lo sguardo dalla nostra finestra.
Siamo rimasti così, immobili, finché il suo petto bianco ha iniziato a risplendere alle prime luci del mattino. L’alba ha scoperto ai miei occhi il suo sguardo confuso e smarrito. Che la giovane rondine si fosse perduta? Che fosse in attesa di qualcuno che venisse a cercarla? Che la piccola stesse chiedendo aiuto proprio a me?
Figliolo caro, non sai che pena ho provato nel rendermi improvvisamente conto di quanto sia tremendo trovarsi soli, a chissà quanti chilometri dai propri affetti.
È forse questo che provi tu, di tanto in tanto? Succede mai che lo smarrimento prenda il sopravvento sul quotidiano scorrere degli eventi? Per me è così, anche se a tua madre non lo dico mai. E so che lo stesso è per lei.
Dove ti trovi ora? Cosa fai? Mangi a sufficienza? Ti prendi buona cura della tua salute?
Il tempo ha preso a correre sui nostri corpi giorno dopo giorno, lasciandoci a sera più bianchi. Più curvi. Ormai, non ci riconosciamo più. Abbiamo smesso di farlo da quando sei partito.
Mamma si ostina a rimettere in ordine la tua camera ogni santo giorno. Apre le finestre per cambiare l’aria, sprimaccia i cuscini con forza, toglie la polvere dal comodino e dalla scrivania. Alla domenica cambia persino le lenzuola! Io la lascio fare, ma certi giorni è così dura (e quel gesto è così dannatamente folle) che non posso trattenere il mio dolore.
Chissà se anche tu ti sei trovato mai in piena notte a pregare che qualcuno ti venisse a salvare. Che ti riportasse a casa dai tuoi cari, annullando questa maledetta distanza che ci ha resi sconosciuti l’uno all’altro. La nostra non si può dire più famiglia da allora.
Mentre me ne stavo lì, piegato sulle ginocchia ormai dolenti, perso in questi pensieri pesanti, un richiamo stridulo ha rotto il silenzio. Le voci si sono moltiplicate in un istante riempiendo all’improvviso il cielo, finché la piccola rondine con un guizzo ha preso il volo.
Sollevato dal lieto epilogo di questa vicenda, ho provato l’impulso di scriverti una lettera, figliolo caro, anche solo per sapere come stai.
Tua madre mi ha trovato chino sulla carta, la mano incerta, il sorriso sulle labbra per questa improvvisa ritrovata speranza. Si è sporta per leggere. Ho lasciato che facesse.
Ma quando l’ho vista coprirsi con le mani il volto e sospirare forte, ho capito che era successo di nuovo. Che di nuovo avevo confuso la realtà col desiderio. Accade sempre più spesso, ultimamente, senza che io possa fare nulla per controllarlo.
Allora, figliolo caro, ho ripiegato la mia lettera con cura, l’ho riposta nella tasca del soprabito e sono venuto a sedermi qui, su questo marmo freddo, dove riposi tu. Ho guardato il cielo in cerca di quella piccola rondine. L’ho immaginata volteggiare libera, insieme alla sua famiglia, persa e ritrovata.
Ho creduto che lei più di chiunque altro potesse capire cosa si prova e le ho affidato le mie parole perché possa portarle a te, ovunque tu sia. Perché, figliolo caro, questo è quello che rimane quando non resta più tempo: le parole che non sei riuscito a dire, i gesti d’affetto che hai trattenuto per pudore.
Li libero oggi per te, sperando tu mi possa perdonare per non averlo fatto prima.
Abbi cura di te, figliolo caro. Abbi cura di te.
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