Che poi mi chiedono perché scrivo

Avrei parecchie persone da ringraziare in questi  giorni e, con un po’ di tempo, loro farò personalmente, promesso.

Qui, oggi, voglio invece dire grazie a una persona speciale, una delle poche in grado di distrarmi veramente in questo periodo.

Qui, oggi, voglio dire grazie a Milo.

Milo è un ragazzino di 13 anni che vive nella mia testa (tutto a posto, non preoccupatevi, poi migliora, eh).

Milo, dicevo, è un ragazzino di 13 anni che sta per assistere alla fucilazione del padre (migliora, davvero, anche se ora magari non sembra), colpevole di aver ucciso un soldato nemico.

Mi chiamo Emilio Zambon, ho tredici anni e a mezzogiorno in punto i tedeschi fucileranno mio padre.

Il paese intero, o almeno quello che ne rimane, è sceso in piazza per assistere all’esecuzione. Da mesi non si vedevano tanti civili riuniti alla luce del sole. Mamma dice che così dimostriamo la nostra indignazione. È convinta che, se li guardiamo dritti negli occhi, non oseranno farlo davvero. Io dico che il coraggio di guardarli magari lo trovo pure. Loro però, secondo me, papà lo fucilano lo stesso.

Il plotone è pronto a fare il suo ingresso nella piazza. Dodici soldati semplici e il loro caporale. Tutti con la stessa divisa, gli stessi stivali di cuoio, il fucile imbracciato alla stessa maniera. Lo stesso sguardo più di tutto. Vuoto. Come se non rimanesse poi molto da guardare.

Alle nostre spalle la grande torre della chiesa, da giorni priva delle campane, sta ritirando la sua ombra verso di sé. Quando non resterà che una piccola macchia scura stesa ai suoi piedi, sapremo tutti che è arrivato il momento.

Siamo nel 1917, sul finire della prima guerra mondiale, e in particolare durante l’occupazione tedesca di alcune province italiane.

Milo mi ha presa per mano e mi ha portata con lui nella sua vita. Non ci siamo detti molto all’inizio, abbiamo semplicemente lasciato che le cose accadessero. Siamo stati a guardare, facendoci coraggio l’un l’altro nei momenti peggiori.

La convivenza talvolta era davvero dura. Non era facile per noi lasciare che mettessero le mani sulle nostre cose, che si portassero via pezzo a pezzo la nostra casa, la nostra vita. Come quella volta che perquisirono il guardaroba di nostro padre. Maria urlò come una disperata, si attaccò alla giacca preferita di papà e disse che non gliela avrebbe mai lasciata. Rimediò un ceffone ma salvò la giacca. Non molto di più, purtroppo. Pianse molto quella sera. E piansi molto anch’io. Piansi pensando a papà che tornava dalla guerra e non trovava più nulla se non la giacca buona. E piansi pensando a  papà che forse dalla guerra non ci sarebbe tornato mai più.

E in mezzo all’orrore poi, però, abbiamo trovato insieme il modo di sorridere lo stesso.

Guardammo fuori dalla finestra per un po’, poi lui si portò una mano al petto e disse “Karl. Tu?” Lo osservai. Aveva gli occhi di un azzurro così chiaro che parevan trasparenti. Mi voltai verso il vetro e scrissi “Emilio”.

Lui ripeté “Emmilo”. Sorrisi. Feci una barra sopra al mio nome e sotto scrissi “Milo”.

“Ah! Milo!” fece lui soddisfatto e con il dito ci scrisse “Karl” accanto. Poi guardò in cima alle scale, verso le camere dov’erano i suoi compagni, e passò rapido la mano sul vetro, portandosi via i nostri nomi. Si avvicinò al mio orecchio: “io amico. Segreto!” E sorrise. Sorrise il sorriso più bello che avessi visto da tempo. E sorrisi anch’io. Dopo mesi di solitudine e paura avevo di nuovo un amico.

Milo, come forse avrete capito, è il protagonista di un mio racconto sulla Prima Guerra Mondiale. Il racconto entrerà a far parte di un’antologia sulla Grande Guerra, curata dall’Associazione Avas Gaggiano.

Devo dire che questa è una delle esperienze di scrittura più belle che mi sia mai capitata. Il confronto in classe, più di tutto, mi sta regalando emozioni fortissime e la possibilità di crescere un po’ di più. Ho ascoltato storie meravigliose scritte in maniera delicata e intensa. E mi sono sentita orgogliosa di far parte (nel mio piccolo) di questa cosa così bella, così importante.

Vi aggiornerò, se vi va, sul viaggio di questa e di tutte le altre storie della raccolta Avas per ricordare la Grande Guerra.

Per ora dico grazie a Milo, per avermi portata per un po’ nella sua vita.

Che poi mi chiedono perché scrivo…

Buon fine settimana a tutti voi!

5 comments to Che poi mi chiedono perché scrivo

  • Michela  says:

    Vale, ma io non vedo l’ora di incontrare Milo!
    E sono tremendamente orgogliosa di avere un’amica che fa cose così e che è riuscita a partecipare a una raccolta così! Sei grande Vale. Ormai te lo dico una volta al giorno, ma cavoli, mica è colpa mia 🙂

    • robedamamma  says:

      Ok, vediamoci:io, te e Milo, fra 5 minuti, nella mia testa! Porta il cacio che ci facciamo due maccheroni!
      Grazie per la fiducia Micky e quando vuoi arriva Milo per posta! 😉

  • 1 kg di costanza  says:

    Sento che io e Milo siamo già amici. Brava Valeria!

    • robedamamma  says:

      Grazie! 😉

  • […] convincervi a unirvi a noi (o desistere definitivamente, vedete voi) qui trovate un breve estratto dal mio racconto A occhi […]

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