Il giorno in cui sono “nata mamma”
Dopo 42 settimane di gestazione, roba che manco gli elefanti africani, il 22 novembre 2008 alle ore 3.54 nasceva la Marmocchia. E in quella notte di vento rinascevo anche io. O meglio, nascevo mamma insieme a lei.
42 settimane sono tante, perfino per ricordare come quel piccolo Rambo scalciante, in versione da asporto, fosse finito nella mia pancia. Eppure nel silenzio ovattato della sala parto, mentre osservavo le pareti dipinte di giallo aspettando la prossima contrazione, ricordo di aver pensato pensato: Ma come, di già?
Urlante a pieni polmoni sin dai primi momenti di vita, la Marmocchia si era presentata a noi così accessoriata: cordone ombelicale corto (tanto da riprodurre un simpaticissimo effetto boomerang nel momento in cui l’ostetrica aveva cercato di mettermela tra le braccia), bozzo rosso attorno all’occhio sinistro (angioma), più brufoli di un adolescente in pieno sviluppo (eritema tossico) e una moquette di peli che manco King Kong (lanugine). Ovviamente alla sua vista il Ninnatore ed io esclamavamo all’unisono Ma è bellissima! E in fondo ci credevamo davvero.
Eh certo, dopo tutta la fatica fatta, le mie imprecazioni e i suoi mancamenti, come ammettere che quel fagottino di neanche tre chili era decisamente bruttino? Meglio non farlo e godersi il momento in cui con lucida fierezza pensavamo Sti cavoli, questa l’abbiamo fatta proprio noi!
Piangeva. Eccome se piangeva. Sfatando allegramente quanto sostenuto dai manuali di puericultura di mezzo mondo (e cioè che nei primi giorni di vita i neonati sono colti da una sorta di post sbornia del sabato sera, grazie al quale non fanno altro che dormire emettendo di tanto in tanto dei timidi vagiti), la Marmocchia pretendeva di percorre in lungo e in largo l’intero reparto maternità, forse alla ricerca delle prime forme di socializzazione e intrattenimento. Non trovandole esprimeva il suo dissenso gridandolo a pieni polmoni.
Io, col passo ciancicato dai punti, sveglia da oltre 48 ore e con ogni singolo centimetro del mio corpo dolente, mi trascinavo fino alla sala del cambio e lì mi ci chiudevo dentro. Se non altro evitavamo il linciaggio da parte delle altre mamme i cui marmocchi erano ancora settati in modalità vibracall.
Lo avevo capito da subito che lo status di Marmocchia le andava stretto. Chissà che avrebbe voluto fare in quel reparto di ospedale con le pareti tinteggiate a nuovo ma i neon a intermittenza (che creavano un effetto discoteca decisamente poco appropriato) e lunghe file di formiche che facevano la spola da una camera all’altra, alla ricerca di una nuova confezione di “Ore liete” (tipico regalo portato in dono alle povere puerpere che in realtà avrebbero preferito di gran lunga una bella collana di salame felino). Un brunch con le amiche? Snorkeling a Santo Domingo? E chissà che altro ancora.
E io la guardavo. La osservavo contandole come una pazza le dita di mani e piedi, come se il fatto che i conti tornassero fosse sufficiente a dire che sì, era in perfetta salute. Era lì, era vera ed era mia.
Anche se in realtà in quel momento ero beatamente inconsapevole di cosa tutto ciò comportasse esattamente.
Mi chiamo Valeria, sono la mamma della Marmocchia e vi do il benvenuto sul mio blog.
Che dire!!!!
La tua marmocchia me la ricordo bene!!!!
Io alla prese con un ubriacone post sbornia del sabato sera e tu con l’amichetta sobria, quella che deve guidare e portare gli amici a casa!
Bhè…una bella coppia!
Forse le formiche sono state opera di qualcuno che conosciamo bene!!!!!
A presto
La fame “chimica” delle 6 di mattina, nei pochi minuti senza marmocchi tra i piedi, e nonostante la notte insonne decidere che un aperitivo pre-colazione con le “ore liete” portate in dono, era meglio che tentare invano un breve riposo. Riproporsi solo due biscottini e dopo aver divorato l’intera scatola in due, trovare subito l’alibi: dobbiamo produrre il latte!
E Mattia che dormiva beato e l’ale che gli urlava nelle orecchie. Io che mi preoccupavo di traumatizzarti il marmocchio, tu che mi dicevi di non preoccuparmi.
Quanti ricordi..